Uno stava facendo un’escursione. L’altro era solo un ragazzo. Entrambi sono stati uccisi dalle truppe israeliane

Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto in italiano da Beniamino Rocchetto

In Israele si parla di una “ondata di attacchi terroristici”, ma l’ondata di uccisioni di palestinesi è appena menzionata.

Di Gideon Levy, Alex Levac

C’è l’immagine di un cuore trafitto da una freccia sul muro della stanza di nel soppalco; e un altro cuore trafitto da una freccia nell’angolo della commemorazione nel soggiorno dei genitori di Mohammed Salah. Accanto alla prima freccia è incisa la lettera A, la prima lettera del nome di Amar, ma non c’è nessuna lettera all’altra estremità della freccia. I suoi amici dicono che nelle ultime settimane aveva persino menzionato qualcuno che avrebbe potuto sposare. Non ci sono nomi nemmeno accanto alla freccia nella seconda casa: Mohammed era solo un ragazzo.

Amar e Mohammed non si sono mai incontrati e mai lo faranno. Uno era uno studente indigente di un campo profughi; l’altro il figlio di un operaio metalmeccanico in una città vicina. Solo pochi chilometri separano le loro case, una nel campo profughi di Al-Aroub, l’altra nella città di Al-Khader, vicino a Betlemme. Il diciannovenne Amar stava facendo un’escursione nella natura con un amico. Da parte sua, il tredicenne Mohammed avrebbe avuto intenzione di lanciare una bottiglia incendiaria contro un muro alto 20 metri, un atto di resistenza che in Ucraina sarebbe considerato eroico e ammirevole. Solo una settimana ha separato le uccisioni dei due giovani, entrambi ipotetici criminali, lasciando due famiglie sconvolte dal dolore e dal lutto.

Martedì scorso, 1° marzo, Amar Abu Afifa, uno studente di ragioneria in una sede distaccata della Scuola Kadoorie nel suo campo profughi, è partito con il suo amico Mohammed per un’escursione tra la città palestinese di Beit Fajjar e l’insediamento israeliano di Migdal Oz. Non è mai tornato.

Quella mattina, Amar si alzò alle 8:30 e andò con sua sorella Asama alla scuola che frequentavano entrambi, a pochi passi dalla loro casa nel centro del campo. Sono tornati alle 12:30 e hanno consumato il pranzo preparato dalla madre, Samiha, 47 anni. Ora racconta gli eventi delle ultime ore di suo figlio, mentre suo marito, Shafiq, 50 anni, è seduto rannicchiato e assorto nei suoi pensieri. La coppia ha sette figli, tra cui Amar.

Il 1° marzo era il primo giorno del semestre primaverile; Abu Afifa è tornato a casa felice e di buon umore. Disse a sua madre che era stato felice di incontrare i suoi insegnanti e gli altri studenti promettendo che nel nuovo semestre avrebbe ottenuto voti migliori rispetto al primo. Avrebbe voluto studiare medicina, ma i suoi genitori non hanno i soldi per accontentarlo. Tuttavia, sperava ancora di studiare medicina, dopo essere aver conseguito il diploma di ragioneria.

Dopo un breve riposo pomeridiano si è recato nella casa accanto, dove vive suo cugino, Ahmed Abu Afifa. Ahmed ha raccontato questa settimana che Amar gli ha detto che non vedeva l’ora che suo fratello maggiore Issa, 23 anni, si sposasse e gli facesse spazio. In seguito ha detto ai suoi genitori che voleva fare un’escursione con il suo amico Mohammed Abu Haniya, 18 anni, che vive dall’altra parte della strada.

Al-Aroub è un campo profughi densamente popolato. Dalla torre di guardia in cemento sulla strada principale che la sovrasta si vede tutto; c’è anche un posto di guardia fortificato all’ingresso del campo. L’unico luogo dove è possibile fuggire dall’ambiente angusto e prendere un po’ d’aria è a Sud-Est, in direzione dei boschi e delle ultime aree naturali rimaste nella zona, tra i villaggi, gli insediamenti e gli avamposti dei coloni.

Abu Haniya, che, quasi una settimana dopo l’uccisione del suo amico, era ancora spaventato e scioccato, e si era rifiutato di parlare o di rispondere personalmente, questa settimana ha accettato di raccontarci le sue ultime ore con Abu Afifa, e anche per portarci sul luogo dell’uccisione.

I due giovani hanno portato con sé un thermos con caffè e tazze usa e getta, hanno comprato semi di girasole nel campo e sono partiti. Erano le 15:30 Dopo aver percorso circa 2 chilometri, sono arrivati ​​ad una collina dove sorge un boschetto di pini; sotto c’è un vigneto e mandorli, ora in piena fioritura bianca. È qui che le famiglie del campo profughi fanno le loro scampagnate, il polmone verde del campo.

Mentre salivamo la collina assieme questa settimana, Abu Haniya si è fermato vicino a un mucchio di pietre. Il giorno prima di morire, Abu Afifa aveva scritto qui il suo nome usando piccole pietre; ora è il suo memoriale. I due si sono fermati qui anche il giorno della sua morte, poi hanno proseguito la salita fino alla vetta, dietro la quale si erge una torre delle comunicazioni delle Forze di Difesa Israeliane, insieme a un punto di osservazione costruito dai coloni in memoria di Ari Fuld, dall’insediamento di Efrat, ucciso in un attacco terroristico nel 2018. Di fronte c’è l’insediamento di Migdal Oz, recintato come una caserma dell’esercito, e accanto un avamposto di coloni dal nome poetico di Oz Vegaon: “Coraggio e Orgoglio”.

Mentre si trovavano lì all’ombra dei pini, un soldato dell’IDF è apparso improvvisamente dal nulla, ha gridato loro in ebraico che non capivano e ha iniziato a sparare in aria. Spaventati a morte, i due fuggirono per salvarsi la vita verso la cittadina di Beit Fajjar, ai piedi della collina. “È stato istintivo”, dice ora Abu Haniya. Dopo pochi metri, vide che il suo amico si era accasciato. Gli gridò: sei ferito? Abu Afifa ha risposto di no. Mohammed era certo che il suo amico fosse inciampato e caduto, ma il rapporto dell’autopsia avrebbe raccontato una storia diversa: Abu Afifa è caduto perché gli avevano sparato a una gamba. Cercò di alzarsi, ma poi apparvero altri quattro soldati. Uno gli sparò alla nuca uccidendolo.

Abu Haniya ha continuato a correre finché non è arrivato a un autolavaggio alla periferia di Beit Fajjar e ha chiesto un passaggio, ma la gente del posto temeva che i soldati avrebbero dato la caccia e sparato anche a loro. Quindi, Abu Haniya corse fino a raggiungere il campo profughi. Lì incontrò il cugino di Abu Afifa, Shadi, e gli disse che Amar era stato ferito a una gamba. Non sapeva niente di più.

Abu Afifa è stato dichiarato morto nel punto in cui gli hanno sparato, da un medico dell’IDF, il dottor Nofit Shmuel, ufficiale medico dell’890° Battaglione Paracadutisti. “Ploni Almoni (John Doe)”, ha scritto nel certificato di morte. “Ferita alla testa da arma da fuoco. Foro d’uscita sopra il sopracciglio sinistro, ferita da proiettile nella coscia sinistra, molto sangue intorno alla testa, pupille dilatate”. Causa: Nessun sospetto di suicidio, nessun sospetto di omicidio, non un incidente stradale, non un incidente sul lavoro: queste sono le opzioni sul modulo. “Altro incidente”, scrisse il medico.

Una fonte dell’esercito ha detto ufficiosamente al giornalista di Haaretz Hagar Shezaf che i soldati dell’890° Battaglione avevano sparato ad Abu Afifa mentre lo inseguivano, dopo aver avvistato dei palestinesi vicino al punto di osservazione di Ari Fuld. Nessuno nell’esercito ha affermato che il giovane avesse lanciato pietre o tentato di aggredire civili o soldati. Come praticamente in ogni caso di omicidio da parte dell’IDF, anche questo sarà indagato dalla Polizia Militare.

Pochi minuti dopo essere saliti in cima alla collina con Abu Haniya, sul luogo dell’omicidio, un mezzo dell’esercito si è diretto velocemente verso di noi. Il tenente che ne è uscito ci ha chiesto cosa stessimo facendo. Ha detto che ai palestinesi non era permesso stare qui. Come mai? “Nell’area c’è un problema di telecamere vandalizzate sulla vicina torre di guardia”, ha spiegato il tenente. Forse questo è stato il motivo della morte di Abu Afifa.

Alle 3 del mattino il suo corpo è stato consegnato alla sua famiglia a un posto di blocco dell’IDF vicino a Migdal Oz. La sua camera da letto nella casa di famiglia nel campo di Al-Aroub rimane vuota. Una coperta nera e rossa copre il letto, pesi lucidi per l’allenamento fisico giacciono sul pavimento, i quaderni e i libri di testo scolastici della Kadoorie sono in un cassetto. Samiha, la madre di Amar, ci mostra le scarpe della Nike che ha comprato per suo figlio, che non aveva ancora indossato; suo padre assorto rimane avvolto nel silenzio. Anche la freccia blu attraverso il cuore è orfana. Le note colorate sono incollate al muro sopra il letto, promemoria delle date degli esami.

Un poster incorniciato nel soggiorno di una casa a pochi chilometri di distanza reca la scritta: “Non Uccidere i Bambini”, parte di un piccolo santuario eretto dai genitori in lutto di Mohammed Salah, ucciso una settimana prima da soldati israeliani. Hanno eretto un imponente memoriale nella loro casa di Al-Khader: una raccolta di innumerevoli foto del ragazzo, non ancora quattordicenne, a cui piaceva fare foto, ballare e cantare e documentare tutto su TikTok. Suo padre, Rizak, 48 anni, un operaio metalmeccanico, e sua madre, Maryam, una casalinga, avevano sette figli fino a due settimane fa.

Mohammed Salah frequentava la terza media, ma ultimamente aveva imparato il mestiere di riparatore di automobili nell’officina di suo cugino, di fronte a casa sua, dopo la scuola, che a quanto pare aveva intenzione di lasciare. Martedì 22 febbraio, esattamente una settimana prima dell’uccisione di Amar Abu Afifa, Salah è andato all’officina per lavorare invece di andare a scuola. Sua madre chiamò a mezzogiorno e gli fu detto che tutto andava bene. Ora ci dice che quel giorno aveva un malessere, un brutto presentimento, dentro di se.

Il ragazzo è arrivato a casa alle 18:15 quella sera, prima del solito. Sua madre era preoccupata che potesse aver litigato con qualcuno al lavoro, ma lui le disse che andava tutto bene. Si è fatto una doccia e ha detto ai suoi genitori che sarebbe uscito con gli amici. Sua madre e suo padre prudenti lo hanno esortato a mantenere le distanze dagli scontri con i soldati. “Al primo sparo: sono a casa”, rispose. Lo chiamavano”Hamudi”, un soprannome.

Pochi minuti prima delle 19:00, un parente ha chiamato per dire che il ragazzo era rimasto ferito. Rizaq si è precipitato con la sua auto verso la barriera di separazione che divide Al-Khader da Ovest, nel luogo in cui si verificano scontri con i soldati. Ai piedi del muro vide otto mezzi militari e due ambulanze. Anche lui aveva una sensazione di terrore. Ha pregato i soldati di fargli vedere suo figlio, ma lo hanno cacciato via minacciandolo con il fucile. “Se non te ne vai di qui, ti sparo così farai la fine di tuo figlio”, gli disse un ufficiale. Implicito nelle parole era il fatto della morte di suo figlio.

“Ho capito che se fossi rimasto lì avremmo avuto due disgrazie e non una”, dice ora. Tornato a casa, vide una folla radunarsi accanto a casa sua e fu tutto chiaro. Nel frattempo, un parente ha portato alla madre sconvolta la giacca che indossava suo figlio, macchiata di sangue. “Il mio cuore è morto con lui”, ci ha detto Maryam, vestita di nero, questa settimana. Ci ha mostrato la giacca rossa di suo figlio, macchiata di sangue e con un foro di proiettile.

La famiglia non ha ricevuto il corpo di Mohammed fino alle 14:00 del giorno successivo, al posto di blocco vicino a Beit Sahur, a Est di Betlemme. Il giovane era stato colpito alla schiena con un proiettile. Secondo l’IDF, i soldati avevano individuato tre persone sospette, una delle quali aveva lanciato una bottiglia incendiaria contro veicoli israeliani. “I soldati hanno sparato a uno dei sospetti mentre stava lanciando una bottiglia incendiaria e lo hanno colpito”, ha affermato la dichiarazione dell’IDF. Secondo una fonte dell’esercito, le due persone che erano con Salah lo avrebbero trascinato poche centinaia di metri dopo che gli avevano sparato. I soldati lo inseguirono finché i due non furono costretti ad abbandonarlo. Successivamente è stato dichiarato morto.

Ci siamo recati sul luogo con i genitori in lutto. Era la prima volta che avevano il coraggio di visitare il luogo in cui il loro figlio era morto due settimane prima. Accanto alle ultime case di Al-Khader c’è una rampa costruita di terra battuta con molti massi, sormontata dalla barriera di separazione, che si erge a circa 20 metri sopra il punto in cui si trovavano Salah e i suoi due amici. Non avrebbe potuto lanciare una bottiglia incendiaria oltre quella barriera contro le auto sulla strada sottostante dal luogo in cui è stato ucciso a colpi di arma da fuoco. Erano tre ragazzini della stessa età, i soldati li aspettavano dietro una delle case. Hanno sparato al ragazzo senza esitazione, con l’intenzione di uccidere.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

Alex Levac è diventato fotografo esclusivo per il quotidiano Hadashot nel 1983 e dal 1993 è fotografo esclusivo per il quotidiano israeliano Haaretz. Nel 1984, una fotografia scattata durante il dirottamento di un autobus di Tel Aviv smentì il resoconto ufficiale degli eventi e portò a uno scandalo di lunga data noto come affare Kav 300. Levac ha partecipato a numerose mostre, tra cui indiani amazzonici, tenutesi presso l’Università della California, Berkeley; la Biennale israeliana di fotografia Ein Harod; e il Museo di Israele a Gerusalemme. Ha pubblicato cinque libri.

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