I mandati di arresto della Cpi

Articolo pubblicato originariamente sulla newsletter sul Medio Oriente di Internazionale a cura di Francesca Gnetti. Foto di copertina: Una protesta a favore della Palestina a Londra, nel Regno Unito, il 2 novembre 2024. (David Tramontan, Sopa images/LightRocket/Getty Images)

Le reazioni della stampa internazionale alla decisione della Corte penale internazionale (Cpi) di emettere mandati d’arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dell’ex ministro della difesa israeliano Yoav Gallant e del capo del braccio armato di Hamas Mohammad Deif sono state molte e varie. C’è chi ha spiegato i cavilli giuridici, chi ha ricordato i tentativi dei palestinesi di usare a loro vantaggio la giustizia internazionale, chi ha sottolineato l’importanza di “un test che la comunità internazionale non può permettersi di fallire”, come scrive il Guardian in un editoriale.

Anche sulla stampa araba sono usciti molti commenti e approfondimenti. Alcuni celebrano la decisione come storica, perché finalmente riconosce che ci sono “ragionevoli motivi” per credere che Netanyahu e Gallant (destituito all’inizio di novembre) abbiano una responsabilità penale per aver usato “la fame” come metodo di guerra, cosa che rappresenta un crimine di guerra, e per aver commesso insieme ad altri i “crimini contro l’umanità di omicidio, persecuzione e altri atti inumani” nella Striscia di Gaza. Al Quds al Arabi la considera un’opportunità unica per unire le forze democratiche mondiali, in particolare quelle arabe, in nome della libertà, della democrazia e della giustizia.

Ma c’è anche chi avverte di non farsi troppe illusioni. Vari osservatori hanno ricordato che la Cpi non ha gli strumenti per costringere gli stati a obbedire ai suoi ordini e che in diverse occasioni Israele ha mostrato di godere di un’impunità totale di fronte alla comunità internazionale e di ignorare decisioni avverse prese dalle grandi organizzazioni mondiali, come le risoluzioni delle Nazioni Unite. Dopotutto Netanyahu potrebbe non correre grossi rischi, considerato che gli Stati Uniti, come lo stesso Israele, non riconoscono la giurisdizione della Cpi e che a gennaio s’insedierà l’amministrazione guidata da Donald Trump, che sta già considerando di emettere sanzioni contro la corte, come aveva già fatto durante il suo primo mandato (sono state revocate da Joe Biden).

Motasem A Dalloul, corrispondente di Middle East Monitor dalla Striscia di Gaza, commenta: “Oltre a essere troppo tardi, gli stessi palestinesi non credono che le sentenze contro Netanyahu e Gallant siano vantaggiose per loro perché, anche se i due leader israeliani fossero effettivamente arrestati, non contribuiranno a mettere fine alle loro sofferenze e perdite quotidiane. Inoltre, anche la posizione degli stati che fanno parte della corte e hanno detto che rispetteranno la decisione o hanno dato una risposta vaga è deludente, perché continuano a inondare Israele di armi per compiere ancora più crimini di guerra e contro l’umanità”.

In un articolo su The New Arab, Alonso Gurmendi, ricercatore in diritti umani e politica alla London school of economics, inserisce la decisione della Cpi nel contesto di un mondo in via di trasformazione. Secondo lui la battaglia dei palestinesi di fronte alla giustizia internazionale fa parte dell’affermazione di un “sud globale sempre più forte, pronto ad appropriarsi del linguaggio del diritto internazionale come strumento di decolonizzazione”. In questa situazione l’occidente deve scegliere se schierarsi dalla parte della giustizia internazionale e difendere la Cpi in quanto pilastro dell’ordine globale successivo alla seconda guerra mondiale oppure abbracciare un sistema che antepone i suoi interessi ai diritti dei paesi del sud del mondo, portando in definitiva alla distruzione della Cpi. “Con questa scelta, la legittimità dell’occidente come potenza egemone del mondo è in bilico. Per la prima volta da molto tempo, il sud globale non dovrà più limitarsi a ingoiare il proprio orgoglio e ad accettare l’ipocrisia dell’occidente”.

La reazione dei mezzi d’informazione israeliani, invece, è stata quasi unanime. E ha fatto eco a quella dei politici, primo tra tutti lo stesso Netanyahu, che ha prevedibilmente accusato la Cpi di “antisemitismo”. Come sottolinea un articolo di Lisa Goldman su New Lines Magazine, anche i giornali e i programmi televisivi che in passato sono stati critici nei confronti di Netanyahu, del suo governo di estrema destra e del tentativo di approvare una contestata riforma della giustizia hanno condannato la decisione della Cpi. “Attraverso tutto lo spettro, dai liberali alla destra, i giornalisti e i presentatori dei notiziari hanno espresso una combinazione di indignazione per l’annuncio della Cpi, inquietudine per le sue implicazioni e rifiuto delle accuse elencate nei mandati”.

Oltre alle critiche più scontate verso la decisione della Corte – “scandalosa” e “completamente scollegata dalla realtà” per la giornalista Moriah Asraf di Channel 13; “un dramma” per il quotidiano di destra Maariv; “una farsa, uno scherzo, un errore giudiziario” per il Jerusalem Post – ci sono posizioni più sfumate e indicative della complessità della società israeliana. In un programma andato in onda la sera del 21 novembre, Baruch Kra, giornalista che si occupa di questioni giuridiche a Channel 13 e appartenente al campo dei progressisti, ha incolpato Netanyahu non per la possibilità che abbia commesso i crimini di cui è accusato, ma per essersi rifiutato di istituire una commissione d’inchiesta trasparente e professionale per investigare le accuse, come aveva proposto il procuratore della Cpi Karim Khan quando aveva chiesto di emettere i mandati lo scorso maggio.

Secondo questo punto di vista la commissione avrebbe dimostrato la buona volontà di Israele, convincendo la Cpi a non procedere, spiega ancora Lisa Goldman. Nel suo tentativo di realizzare una riforma della giustizia accusata di indebolire il sistema giudiziario rispetto al potere esecutivo, che nei mesi precedenti agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 aveva innescato uno dei più grandi movimenti di protesta nella storia di Israele, il governo di Netanyahu avrebbe dunque creato un vuoto che la Cpi ha riempito. Sono state simili azioni antidemocratiche, affermano i sostenitori di questa teoria, a rendere Israele vulnerabile. In quest’ottica, adottata da vari osservatori progressisti israeliani, la campagna militare del governo di Netanyahu nella Striscia di Gaza è giustificata, mentre la sua volontà di delegittimare la magistratura del paese e reprimere il dissenso della società civile non lo è.

Tra i principali giornali israeliani l’unico a condannare il governo e a prendere sul serio le accuse della corte è Haaretz, che è sempre stato critico nei confronti dell’esecutivo di estrema destra di Netanyahu e nel corso dei mesi ha preso sempre più le distanze dalle azioni dell’esercito israeliano a Gaza, arrivando a denunciare una “pulizia etnica” nel nord del territorio palestinese. Nel suo editoriale del 22 novembre ha parlato del “punto più basso mai raggiunto dal paese a livello morale”. Il quotidiano progressista accusa il governo e l’opinione pubblica, con il sostegno della maggior parte di giornali e tv, di essere “indifferenti e insensibili” di fronte alle “azioni terrificanti” dell’esercito. Invece d’interrogarsi sulla moralità della guerra in corso a Gaza, “sperano che Trump consentirà a Israele di continuare, se non intensificare, le azioni che la Corte penale internazionale definisce crimini contro l’umanità”.

Ma a Netanyahu non piace essere contraddetto. E così il 24 novembre il consiglio dei ministri israeliano ha approvato una proposta che impone a qualsiasi ente finanziato dal governo di astenersi dal comunicare con Haaretz o dal pubblicare annunci pubblicitari sul giornale. Inoltre ha imposto la privatizzazione del canale tv pubblico Kan. Nell’editoriale di ieri, Haaretz denuncia una “nuova campagna per distruggere la stampa libera, una pericolosa nuova fase nel piano di Netanyahu per distruggere la democrazia israeliana e sostituirla con un regime autoritario guidato da lui stesso”.

Il governo ha giustificato la decisione facendo riferimento ai “molti editoriali che hanno danneggiato la legittimità dello stato di Israele e il suo diritto all’autodifesa”. E il pretesto, spiega Haaretz, sono state le dichiarazioni fatte dall’editore del giornale, Amos Schocken, durante una conferenza a Londra il 27 ottobre. In quell’occasione Schocken aveva detto che “Netanyahu non si preoccupa di imporre un crudele regime di apartheid alla popolazione palestinese. Per difendere gli insediamenti e combattere i combattenti per la libertà palestinesi, che Israele chiama terroristi, non tiene conto dei costi sostenuti da entrambe le parti”. Schocken aveva poi precisato che parlando di “combattenti per la libertà” non si riferiva ad Hamas. Haaretz avverte che il tentativo del governo israeliano d’imbavagliare i mezzi d’informazione non si fermerà qui: “Questo è esattamente il modo in cui i leader che condividono la dottrina di Netanyahu – il presidente russo Vladimir Putin, quello turco Recep Tayyip Erdoğan e l’ungherese Viktor Orbán – hanno trasformato i mezzi d’informazione del loro paese nella propaganda del governo”.

Dell’iniziativa contro Haaretz parla anche l’editoriale di Giovanni De Mauro nel prossimo numero di Internazionale, online da domani e in edicola dal 29 novembre. Si può anche leggere un’analisi di Al Jazeera sui mandati di arresto della Cpi con i commenti della stampa araba e israeliana. Tra le column la scrittrice libanese Dominique Eddé riflette sul silenzio del mondo di fronte alla tragedia in Palestina. Sul cessate il fuoco in Libano c’è un editoriale di L’Orient-Le Jour.

Restando in tema di stampa, altre due segnalazioni. L’editoriale del Washington Post del 24 novembre è un concentrato di tutti i pregiudizi, la propaganda e la falsa narrazione che avvolge il dibattito su Israele negli Stati Uniti. Il quotidiano statunitense accusa la Corte penale internazionale di compromettere la sua credibilità emettendo dei mandati di arresto nei confronti di “leader eletti di un paese democratico con una propria magistratura indipendente”, mettendoli “nella stessa categoria di dittatori e autocrati che uccidono senza impunità”. Non c’è dubbio, aggiunge il giornale, che dopo la fine della guerra ci saranno “commissioni d’inchiesta giudiziarie, parlamentari e militari israeliane” e che “i vibranti e indipendenti mezzi d’informazione israeliani svolgeranno le loro indagini”. Proprio quel giorno il governo israeliano ha deciso di boicottare Haaretz.

La prima pagina del New York Times del 25 novembre è un pugno nello stomaco. Gran parte dello spazio è occupato dalla fotografia di un bambino senza braccia, che campeggia sopra al titolo “Surviving Gaza”, sopravvivere a Gaza. Rimanda a un articolo pubblicato all’interno del giornale, che si può leggere anche sul sito, in cui Samar Abu Elouf ed Eric Nagourney ritraggono le persone, in gran parte bambini, feriti dai bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza e curati in Qatar, e raccontano le loro storie. “Sono sopravvissuti, anche se alcuni di loro non sono sicuri di voler ancora vivere”. Il New York Times è vicino a Israele e si è espresso spesso in suo sostegno. Ma nell’ultimo anno ha anche pubblicato importanti inchieste (alcune tradotte su Internazionale) per denunciare gli orrori commessi da Israele nella Striscia di Gaza.

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