Israeliani e palestinesi sono caduti nella trappola degli accordi di Oslo

Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto

Di Gideon Levy

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Siamo caduti nella trappola di Oslo. Era una trappola al miele, dolce e stimolante. Com’è stato bello restare invischiati nella sua rete per qualche anno, con tutti i convegni e gli incontri. Ma Oslo non ha portato avanti la pace, l’ha solo allontanata, oltre l’orizzonte, consolidando l’Occupazione e perpetuando gli insediamenti.

Questa è ovviamente la saggezza del senno di poi e no, non è a causa dell’assassinio di Rabin. La storia non giudicherà favorevolmente i promotori israeliani degli Accordi di Oslo. Non possono essere perdonati per aver perso un’opportunità, non meno importante delle occasioni perse prima della Guerra dello Yom Kippur.

Una scena in particolare è impressa nella mia mente di quei giorni inebrianti e gioiosi. Un giorno, quando abbiamo lasciato la Striscia di Gaza attraverso la stazione di confine del valico di Erez, ci siamo voltati e abbiamo salutato la Striscia: Addio Gaza, non ti vedremo più, non sotto Occupazione. Yasser Arafat si era già stabilito a Gaza, si stava prendendo un raffreddore nel suo ufficio spartano sotto il condizionatore Tadiran lasciato dagli israeliani, e le speranze erano ai massimi.

Un tour per giornalisti, organizzato pochi mesi dopo in onore dell’inaugurazione di un villaggio vacanze nel Nord della Striscia di Gaza, a cui hanno partecipato celebrità israeliane, non ha fatto altro che aumentare il senso di gioia. Una delegazione in Europa, composta da membri della Knesset (Parlamento) e da un consiglio legislativo palestinese, tra cui Marwan Barghouti, non ha fatto altro che intensificare l’illusione.

Pensavamo che l’Occupazione stesse per finire, che uno Stato palestinese fosse dietro l’angolo, e che avremmo potuto trascorrere le vacanze in un Club Med a Beit Lahiya; pensavamo che Yitzhak Rabin e Shimon Peres volessero la pace. Solo una manciata di estremisti radicali di sinistra idioti pensavano che non dovessimo intraprendere quella strada. Avevano ragione e noi avevamo torto. Dobbiamo ancora una volta chiedere scusa alla sinistra radicale, che ha visto tutto prima di chiunque altro.

I verbali della riunione di governo che ratificò gli Accordi 30 anni fa, pubblicati per la prima volta la scorsa settimana, raccontano tutta la storia. Il tono dolente, il pessimismo, il disprezzo, la repulsione quasi fisica nei confronti dei palestinesi e del loro Capo; la sensazione che Israele stesse “dando” più di quanto stava “ottenendo”, la mancanza di qualsiasi volontà di forgiare una giustizia tardiva, nessuna assunzione di responsabilità per i crimini del 1948, nemmeno per quelli del 1967; il totale disprezzo per il diritto internazionale, l’attenzione compulsiva alla sicurezza, solo quella degli israeliani, ovviamente, il riferimento era esclusivamente al “terrorismo” palestinese, non alle azioni di Israele, e alla violenza dei coloni e dei loro adepti, che a quel tempo erano semplici ragazzacci in confronto ai mostri che sono adesso: tutto questo non era evidente in nessuna delle parole pronunciate dai premi Nobel per la pace, Rabin e Peres. Non è così che si fa la pace. È così che si prepara una trappola per guadagnare più tempo.

Il culmine è stato il sospiro di sollievo emesso da Peres in quella seduta. I palestinesi avevano concordato che gli insediamenti ebraici potessero rimanere al loro posto. Il padre dell’impresa coloniale si vantava di essere riuscito addirittura a impedire che fossero trasformati in una zona franca. Questo è il nocciolo del problema con gli Accordi di Oslo.

La questione più cruciale non è stata discussa. Il crimine più grande è stato ignorato. I palestinesi hanno commesso l’errore della loro vita, mentre gli israeliani hanno agito nei loro soliti modi predatori e opportunisti. “Quello che ci preoccupava era che sollevassero la questione degli insediamenti”, ha confessato Peres. “La questione degli insediamenti” come se questo fosse il pericolo da scampare ad ogni costo. Ma il pericolo è scomparso da solo. Che fortuna. Dopotutto, se avessero iniziato a tormentarci con quella “questione”, avremmo dovuto quantomeno congelare la costruzione degli insediamenti, il passo minimo di qualsiasi governo che si sforza di perseguire la pace.

Quella fu la prova decisiva per accertare le vere intenzioni: se Rabin e Peres non avessero proposto di congelare la costruzione degli insediamenti, non avrebbero avuto intenzione di consentire nemmeno per un minuto la creazione di uno Stato palestinese. È così semplice.

No, Rabin e Peres non cercavano né giustizia né pace. Cercavano la tranquillità, che permise di triplicare il numero dei coloni e assicurò la perpetuazione dell’Occupazione. Per questo non c’è perdono. Il redattore di Haaretz Aluf Benn sente la mancanza di Rabin. Trovo difficile unirmi a lui, nonostante la mia grande ammirazione per quell’uomo e il struggimento per quei giorni, che erano davvero migliori. Ma lì non c’era un vero impegno per la pace e la giustizia.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

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