«Le università israeliane sono il laboratorio dell’industria militare»

Articolo pubblicato originariamente sul Manifesto

Di Chiara Cruciati

Foto di copertina: Studenti all’esterno della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Tel Aviv il primo giorno del nuovo anno accademico, il 10 ottobre 2021. (Flash90)

ISRAELE. Intervista all’antropologa israeliana Maya Wind: «Iai, Rafael, Elbit sono nate negli atenei. E sul piano politico le facoltà di legge producono interpretazioni innovative del diritto internazionale per sostenere che Israele non lo viola»

«È nostro dovere chiedere di interrompere i rapporti con l’accademia israeliana fino a quando non prenderà parte al processo di decolonizzazione». Così Maya Wind conclude la conversazione con il manifesto. Antropologa israeliana alla British Columbia, ha da poco pubblicato per Verso il libro Towers of Ivory and Steel: How Israeli Universities Deny Palestinian Freedom in cui indaga il ruolo dell’accademia nel mantenimento del sistema di oppressione del popolo palestinese.

Partiamo dal ruolo storico nella fondazione dell’industria militare israeliana.

Le università israeliane sono state una colonna portante del dominio razziale, dell’apartheid e dell’occupazione e sono state al servizio dello stato in diversi modi. Innanzitutto, il luogo stesso e il modo in cui i campus sono stati costruiti su terre confiscate, per togliere continuità al territorio palestinese, li rende una delle infrastrutture della spoliazione. Lo è anche la produzione di conoscenza funzionale al sistema militare e di intelligence: molte discipline sono state subordinate alla produzione di ricerche che forniscono da decenni modelli di governo militare dei palestinesi. Infine, c’è l’aspetto tecnologico: l’accademia israeliana ha dato vita all’industria militare israeliana. Le aziende ancora oggi leader sono nate dentro l’accademia israeliana, pensiamo a Science Corps, dipartimento di ricerca interno alle milizie Haganah, operativo nei primi tre campus israeliani, il Technion, la Hebrew University e il Weizmann Institute. Con la fondazione dello stato, accademici e scienziati israeliani hanno lavorato perché Israele non solo importasse armi e tecnologie militari ma perché le sviluppasse. È questa l’origine dell’industria militare israeliana, di Israel Aerospace Industries, Rafael, Elbit Systems, nate dentro le università, in particolare al Technion. Sono le aziende poi divenute esportatrici globali. E dalle loro origini le armi prodotte vengono testate sui palestinesi. Le università sono il laboratorio centrale dell’industria militare israeliana e i loro vertici ne parlano apertamente. Li cito nel libro quando dicono che senza l’accademia Israele non avrebbe mai raggiunto il livello attuale.

Tale collaborazione è ancora attiva e trova applicazione nell’offensiva su Gaza?

Intorno alle collaborazioni c’è grande oscurità. Quello che sappiamo è che tutte le tecnologie sviluppate in passato sono il fondamento di quelle nuove, è come un edificio che cresce. Rafael, Elbit, Iai sono interne al sistema accademico in diversi modi: borse di studio agli studenti, finanziamento di ricerche e interi laboratori, porte girevoli di ricercatori e dipendenti. Sono due sistemi inseparabili. E poi c’è un altro tipo di industria, in particolare all’Università di Tel Aviv, che si occupa di intelligenza artificiale.

Esiste anche un ruolo politico di legittimazione delle pratiche militari?

Da anni e in particolare negli ultimi sei mesi gli accademici reagiscono ai tentativi di giudicare Israele a livello internazionale. Ad esempio alla Corte internazionale di giustizia: accademici e giuristi israeliani producono interpretazioni del diritto umanitario e del diritto di guerra per proteggere Israele dall’accusa di genocidio. Da decenni fabbricano interpretazioni innovative del diritto internazionale per sostenere che Israele non lo viola e che le offensive militari contro i palestinesi non comportano crimini di guerra. Le università sono davvero soggetti centrali nel meccanismo di legittimazione e di sostegno dell’impunità israeliana. Quando il Sudafrica si è rivolto alla Cig, facoltà di legge e giuristi si sono subito mossi per produrre contro-argomentazioni. Tra i più attivi c’è l’ex responsabile del dipartimento di diritto internazionale dell’esercito che oggi lavora alla Tel Aviv University e che ha detto, la cito: «L’arena internazionale è un campo di battaglia. Devi conoscere il tuo nemico e sapere come affrontarlo, non vogliamo fornirlo di munizioni».

Sul piano politico, abbiamo assistito non solo a una mancata condanna dell’offensiva su Gaza ma anche alla repressione interna ai campus delle voci critiche.

Fin dalle sue origini l’accademia israeliana è stata un luogo ostile e repressivo per studenti e professori palestinesi. Di certo c’è stata un’escalation, con le amministrazioni delle università che hanno sospeso studenti, li hanno cacciati dai dormitori con sole 24 ore di preavviso, chiesto indagini nei loro confronti. La caccia alla streghe è facilitata da facoltà e gruppi di studenti ebrei israeliani, come la National Student Union che sorveglia i palestinesi e li denuncia. Il caso della professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian è esemplare: è stata arrestata e interrogata la scorsa settimana. La ragione per cui è da anni perseguitata è che ha il coraggio di fare ricerca sulla violenza coloniale e la violenza di stato. La Hebrew University è diretta responsabile di quello che le sta accadendo: per anni ha deciso di non sostenerla e infine l’ha sospesa, aiutando il clima di incitamento contro di lei.

Qual è il rapporto tra accademia israeliana e palestinese?

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