Lo sgombero invisibile del Negev non è mai finito

Articolo originariamente pubblicato sul Manifesto

Di Chiara Cruciati

Sheikh Siyah al-Turi sulle terre di Al Araqib nel deserto del Naqab © Ap/Hazem Bader

Nel 1951, in tempo di pace, lo Stato di Israele ordinò un’operazione militare contro propri cittadini, i beduini palestinesi del deserto meridionale. Poi con una legge «a tempo» gli prese le terre. Lo storico israeliano Gadi Algazi racconta la sua scoperta, che ora entra di prepotenza nelle aule di tribunale chiamate a decidere il destino dei villaggi beduini.

«Qui ad al Araqib i vivi dormono accanto ai morti». Sheikh Siyah al-Turi ha 72 anni, folti baffi bianchi e 87 denunce. Sono i fascicoli aperti contro di lui negli ultimi due decenni dalle autorità israeliane perché, insieme ad altre famiglie beduine palestinesi, insiste a vivere nel suo villaggio.

Si chiama Al Araqib, è una minuscola comunità nel deserto del Naqab (Negev), sud dell’attuale Stato di Israele, e ha un ben poco invidiabile record: è stato demolito dai bulldozer israeliani già 197 volte.

Case di mattoni, tende, ogni volta le 22 famiglie palestinesi devono ricostruire tutto. Oppure abituarsi a vivere nel cimitero del villaggio, tra le lapidi, nella speranza che almeno gli avi possano proteggerli da una politica di trasferimento forzato vecchia di sette decenni.

LO SPOPOLAMENTO forzoso del Naqab è cominciato con la fondazione di Israele e con le bande paramilitari sioniste che qui hanno compiuto più di un massacro. Ed è continuato dopo con leggi ad hoc e un’operazione militare segreta.

A darne conto, dopo la desecretazione dei documenti d’archivio nel 2017, è stato lo scorso gennaio il professor Gadi Algazi, storico israeliano dell’Università di Tel Aviv: nel novembre 1951, in tempo di pace, l’esercito israeliano lanciò un’operazione militare nel deserto meridionale per sgomberare con la forza i beduini che erano riusciti a sopravvivere alla Nakba del 1948, l’espulsione forzata dai confini del neo Stato dell’80% della popolazione palestinese di allora, circa un milione di persone.

Tra i materiali trovati da Algazi c’è una lettera firmata da Moshe Dayan, all’epoca capo del comando meridionale dell’esercito, e un documento scritto dal governo militare dell’area: dimostrano l’intenzione di cacciare con un’operazione organizzata e sistematica la popolazione beduina dal Naqab per confiscarne le terre.

«IL TRASFERIMENTO dei beduini nelle nuove aree (verso est, dentro i confini nazionali, zone prive di sorgenti d’acqua, ndr) – si legge nella lettera di Dayan – renderà nulli i loro diritti di proprietà e saranno trattati come affittuari delle terre governative». Se non vorranno trasferirsi volontariamente «li costringeremo a farlo», la risposta dell’allora capo del governo militare del Naqab.

A DARE SENSO a una simile operazione, condotta in tempo di pace contro propri cittadini, sarà la cosiddetta Legge sull’acquisizione dei terreni, approvata nel 1953: come la più nota Legge degli Assenti permise a Israele di confiscare ogni proprietà mobile e immobile dei rifugiati palestinesi (gli “assenti”, appunto), così la Legge sull’acquisizione della terra fu usata per impossessarsi di quelle dei palestinesi ormai divenuti cittadini israeliani, coloro che dopo la Nakba erano riusciti a rimanere in Israele.

Come? Stabilendo che chiunque non si fosse trovato sulla propria terra il primo aprile 1952 ne avrebbe perso i diritti di proprietà. La terra poteva essere confiscata unilateralmente, senza comunicarlo al proprietario, per fini di «sviluppo, sicurezza o colonizzazione». L’operazione militare fu il modo migliore per tenere lontano i proprietari dai propri villaggi.

«Una legge estrema – spiega al manifesto il professor Algazi – rimasta valida solo un anno, durante il quale lo Stato ha confiscato quasi tutta la terra rimasta ai palestinesi cittadini israeliani semplicemente dimostrando che il legittimo proprietario non era presente in quel dato giorno. È una legge imbarazzante, un’espropriazione legalizzata di massa avviata con un’operazione militare segreta contro civili, cittadini senza armi. Queste comunità chiedono il riconoscimento di un’ingiustizia storica e l’invalidamento di quell’espropriazione».

«Il Naqab ha una lunga storia di lotta beduina per il diritto alla terra, fin dagli anni Cinquanta – continua Gadi Algazi – La maggior parte di loro fu espulsa tra il 1947 e il 1949: stimiamo che di 70-100mila beduini non ne rimasero che 13mila. Ma l’espulsione è continuata anche dopo, fino al 1959-1960».

«A quel tempo hanno provato a mandarci via in tutti i modi, politici, militari, con la paura – ci racconta Sheikh Siyah al-Turi – I nostri avi sono però riusciti a rimanere. Dopo la Nakba, Israele ha posto la zona sotto la legge di emergenza militare per sei mesi. Durò molto di più, per cui i beduini andarono dal comandante militare di zona per chiedere di tornare sulle proprie terre. Rispose che avrebbero potuto affittarle. Hanno rifiutato».

UNA STORIA FINORA taciuta e negata dalle autorità israeliane di fronte alle denunce dei beduini che a lungo, inascoltati, hanno raccontato dell’espulsione manu militari. E una storia affatto relegabile al passato: quei documenti potrebbero segnare una svolta nel casi legali aperti dalle comunità beduine nelle corti israeliane per ottenere il riconoscimento dei propri diritti di proprietà.

«Israele nega che i beduini abbiano diritti sulla terra – prosegue Algazi – Ma, soprattutto nella parte nord del Naqab, erano agricoltori e non nomadi. Hanno sofferto duramente della fantasia biblica del nomadismo combinata alle pratiche del colonialismo. Il Naqab era un luogo florido, produceva grano: durante la Seconda guerra mondiale i soldati britannici bevevano birra prodotta con l’orzo locale».

Quell’operazione non fu altro che un prosieguo della Nakba, mai finita: nei decenni successivi ha assunto altre forme, dalla forestazione condotta dal Jewish National Fund (ente semigovernativo responsabile – prima e dopo il 1948 – dell’appropriazione di terre palestinesi e dell’avvio della colonizzazione) con cui Tel Aviv ha assunto il controllo delle terre beduine palestinesi ricoprendole di alberi; al cosiddetto Piano Prawer del 2013, poi congelato grazie alla mobilitazione dei beduini e del resto dei palestinesi cittadini israeliani, ovvero il trasferimento forzato di decine di migliaia di beduini dai loro villaggi e dal loro stile di vita rurale verso sette township costruite ad hoc.

Sullo sfondo sta un vizio originario: il mancato riconoscimento di 35 villaggi palestinesi dove vivono circa 100mila persone. Ancora considerati dalle autorità israeliane comunità illegali, non godono di alcun servizio, che sia idrico, elettrico, educativo o sanitario. Un limbo amministrativo che è lo specchio dell’uso della burocrazia a fini politici e che ha condotto in questi anni a demolizioni continue.

«QUELLI CHE CHIAMIAMO villaggi non riconosciuti sono una creazione dello Stato – continua Algazi – Il solo modo per i beduini di difendere le proprie terre è viverci sopra e attendere una qualche giustizia futura. Non riconoscendo i villaggi lo Stato rende la loro vita impossibile: non si tratta di mera discriminazione, ma di una strategia di espropriazione. Non ci sono servizi, sanità, educazione».

ANCHE QUI SI OPERA con un doppio standard: «Le mappe israeliane realizzate negli anni Sessanta sono un’invenzione burocratica, fu completamente arbitrario decidere che colonie ebraiche con pochi abitanti erano comunità riconosciute mentre comunità beduine di centinaia di persone no. Poi negli anni Novanta con l’ondata di privatizzazioni, le autorità di Tel Aviv hanno incoraggiato imprenditori a creare fattorie di una sola famiglia, spesso giocando con l’ecologismo e il turismo. Tutte costruite illegalmente, senza permesso, ma riconosciute per garantire l’appropriazione ebraica della terra, una forma di colonizzazione interna, mentre i beduini lottano da decenni».

Al Araqib è l’esempio più eclatante: «Lì la vita è impossibile – aggiunge Algazi – Per farli andare via lo Stato ha operato in vari modi: ha piantato alberi sulle loro terre con un pretesto ecologista, ma è stato un disastro ambientale; ha spruzzato l’erbicida Roundup sulle terre coltivate e le persone per tre anni; infine ha operato con le demolizioni, la prima nel 2010, 1.400 agenti speciali hanno distrutto l’intero villaggio per poi continuare a farlo ogni 3-4 settimane. Spesso in inverno e in estate i beduini si ritrovano senza rifugio».

Quel giorno, il 27 luglio 2010, Sheikh Siyah al-Turi lo ricorda bene: «Hanno attaccato il villaggio con forze ingenti, abbiamo pensato stessero attaccando Hezbollah in Libano: unità speciali dell’esercito, polizia a cavallo, cani. Hanno anche eretto un piccolo ospedale da campo. In cielo volavano gli elicotteri. Sono arrivati i bulldozer e hanno distrutto tutte le case di al Araqib. Hanno sradicato centinaia di ulivi. Non abbiamo potuto prendere nulla dalle nostre case, neanche il latte per i bambini. Con noi c’erano anche tanti attivisti israeliani e internazionali a sostenerci: sono stati picchiati e denunciati».

Sono seguiti anni di demolizioni e proteste. Le ultime a metà gennaio contro l’ennesima piantumazione del Jewish National Fund, di nuovo volta a occupare terre beduine: «Era un corteo autorizzato – continua Sheikh Siyah – ma la polizia lo ha attaccato con lacrimogeni, cannoni ad acqua, proiettili di gomma e ha arrestato 200 dei nostri giovani. Alcuni sono stati denunciati, altri già incriminati. Un atto criminale della polizia contro dei cittadini, è terrorismo di stato contro la minoranza palestinese».

«TUTTE LE COMUNITÀ del Naqab vivono il trasferimento forzato, la demolizione di case, le uccisioni degli animali, la confisca dei trattori. Ma noi staremo qua per sempre. Non possediamo semplicemente la terra, noi siamo la terra».

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